Suggestione ed effetto placebo

Il termine placebo viene usato quasi sempre, dai non addetti ai lavori, in senso negativo, come sinonimo di sciocca illusione, inganno verso se stessi o verso gli altri, o entrambe le cose. Di solito lo si adopera per riferirsi al caso in cui si guarisca da una malattia dopo aver assunto una sostanza inerte che, invece, pensavamo fosse un farmaco. Se ne conclude che il paziente aveva una malattia psicosomatica (?).
A pensarci bene, il concetto fa volentieri il paio col termine suggestione, inteso in senso del tutto negativo. “Si è lasciato suggestionare” significa, nel linguaggio comune, “si è lasciato ingannare” “si è lasciato fuorviare, distrarre”.

Strano. Eppure nessuno si meraviglia quando, pensando ad un cibo particolarmente gradito verso l’ora di pranzo, sente l’acquolina in bocca. Oppure quando, essendoci scottati con dell’acqua bollente, per un bel po’ di tempo ci pensiamo due volte prima di immergere un dito nell’acqua anche quando questa è certamente fredda. In questi casi la nostra natura psicosomatica non stupisce. O, ancora, quando diciamo che lo stress ci ha fatto venire – chessò – un’ulcera.
Anche quando si parla di malattie molto gravi, come un tumore, tutti condividiamo l’idea che con il giusto atteggiamento, propositivo ed evolutivo, si guarisca più facilmente; mentre si dice – da sempre – che si può morire di crepacuore.

Strano quindi che il concetto di suggestione, così ovviamente accettato in certi campi, risuoni ancora di accezioni antiche e superstiziose in altri… Forse è un tipico esempio della incoerenza delle stratificazioni culturali.

Ormai non fa più effetto (quasi) a nessuno sentir affermare che la fisiologia e la psicologia sono strettamente legate, e difficilmente separabili. Quando ho cominciato la mia attività di divulgatore, invece, si passava decisamente per tipi new age (e un po’ fumati) se si sosteneva che l’atteggiamento emotivo e le dinamiche psichiche sono strettamente legate agli aspetti più strettamente fisiologici del nostro esistere.

Placebo è una parola latina che significa piacerò. L’espressione effetto placebo indica una situazione in cui un ammalato riscontra dei miglioramenti oggettivi nelle sue condizioni patologiche a causa di una buona e favorevole disposizione psicologica conseguente alla messa in opera di azioni volte al miglioramento delle sue condizioni.

Tutto si può pensare dell’effetto placebo, dunque, tranne che sia una dimostrazione di quanto siamo ingenui, creduli o deboli. Al contrario, è la conferma di quanto siamo esseri fondati nella relazione, e di quanto sia per noi importante il rapporto con gli altri, anche solo immaginato: in questo caso col medico, con chi ci propone il farmaco, o coi ricercatori e scienziati che quel farmaco hanno concepito.

Sul piano clinico, l’effetto placebo varia a seconda della patologia; è naturalmente più alto in quelle patologie dove la nostra disposizione d’animo e le nostre emozioni prevalenti hanno più efficacia sul sintomo (ad esempio l’asma, certe forme di emicrania…), mentre è più basso dove la patologia coincide di più con un danno funzionale o tissutale (una frattura, ad esempio). Mediamente, l’effetto placebo oscilla tra il 12 ed il 18% dell’efficacia di un farmaco. In altre parole, il 15% circa delle persone che assumono un farmaco sperimenta di solito dei benefici per il solo fatto di essere consapevoli di curarsi; detto ancora in un altro modo, circa il 15% dell’efficacia di un farmaco è dovuto ad un atteggiamento fiducioso e positivo nei confronti del terapeuta e della terapia.

Come si può intuire, esiste anche l’effetto placebo negativo: quando, pur assumendo un farmaco potente, ne proviamo benefici ridotti o non proviamo alcun beneficio, per motivo di una particolare disposizione emotiva (nei confronti della malattia, del farmaco, della terapia, del medico, o di chi ci sta vicino). Questo discorso ha senso, naturalmente, nei casi in cui il farmaco sia veramente efficace, la diagnosi corretta e la terapia funzionale.
Sì è visto che certe persone riescono più facilmente di altre ad espellere il principio attivo di un farmaco per via urinaria o fecale, e catalizzano (smontano) più velocemente nel sangue le molecole di potere terapeutico. Anche la sensibilità dei recettori cellulari alle sostanze trasportate dal sangue può cambiare notevolmente.
C’è, del resto, chi non sperimenta mai alcun effetto placebo.

Il mio invito è quindi di demistificare la carica di surrealtà di cui spesso viene ammantato il concetto del placebo, considerando che mente e corpo, fisiologia e psicologia, razionalità ed emotività non sono concetti opposti ed a tenuta stagna l’uno all’altro. In questo modo aumenteremo la nostra consapevolezza su come funzioniamo e sulle cose che ci succedono, e restituiremo dignità alla nostra integrità di esseri umani.

La nostra complessità va spesso ben oltre la nostra capacità di comprensione; ed è proprio in virtù di questo che siamo in grado di compiere le cose più alte, e di slanciarci con passione oltre noi stessi.

Image courtesy sapete.org
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