Fitologia e fitoterapia: curarsi con le piante?

Mai come in questi ultimi anni abbiamo assistito ad un’esplosione delle terapie naturali nella parte occidentale del mondo. I motivi sono tanti e diversi, e non li analizzerò qui. Ciò di cui invece vorrei occuparmi in questa serie di articoli è l’eterna diatriba sull’efficacia e sulla pericolosità al contempo di alcune di esse, ed in particolare delle terapie a base di piante: in che termini e – se del caso – fino a che punto ci si può affidare ad una terapia a base di piante medicinali come sostitutiva di una terapia a base farmacologica chimica?
È forse inutile specificare che questi post non toccheranno affatto le culture tradizionali, e le centinaia di migliaia di persone nel mondo che culturalmente si basano e da sempre si sono basate su quanto fosse reperibile in natura per le proprie esigenze di cura. Ci concentreremo, piuttosto, sull’uso che nei paesi più industrializzati (i cui mercati sono invasi da molecole di sintesi di ogni genere) si fa delle piante medicinali, e del rapporto che nasce con la Medicina Farmacologica.

Molti chiamano omeopatia le terapie naturali. In realtà l’omeopatia è una tecnica specifica, del tutto diversa per principi e procedure da molte forme terapeutiche. Ne parleremo magari in un’altra occasione.
Se si utilizzano per la cura princìpi attivi contenuti nelle piante, si deve parlare di terapia fitologica. Io preferisco questo termine al più comune fitoterapia, perché quest’ultimo si riferisce propriamente alla cura delle malattie delle piante. A volte si usa anche il termine fitologia medica. Benché in alcune lingue (compreso l’inglese) si parli di herbal therapy, io preferisco comunque il termine pianta: le erbe sono solo uno specifico genere di piante, mentre molti altri se ne possono adoperare per la creazione di farmaci.
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Pareri discordanti

Il mondo (occidentale) pare nettamente diviso riguardo la terapia fitologica: da una parte ci sono medici o farmacisti che parlando di un prodotto fitologico dicono “massì, sono solo erbe innocue!”; d’altro canto, c’è chi mai e poi mai utilizzerebbe per curare sé e i suoi cari una molecola di sintesi (un farmaco industriale). Entrambe le posizioni meritano a mio giudizio un approfondimento.
Vorrei ricordare ai primi che “fitologico” non è sinonimo di “azione debole”, come mostrano con brutale chiarezza i mille veleni estraibili da molte piante (cicuta, veleni fungini) e le centinaia di sostanze psicoattive di origine vegetale. Non si capisce perché, a priori, mille piante possano addormentare, indurre allucinazioni o addirittura uccidere, e mille altre non possano manifestare azioni chimiche salutari su di un tessuto, un organo o una fisiologia.
Agli altri, mi preme far osservare come la terapia sia una cosa seria, e vada condotta con i migliori strumenti tecnici e scientifici a nostra disposizione. Nell’immaginario di molti il principio attivo fitologico è essenzialmente una sostanza debole, dall’effetto non invasivo, quindi più gestibile e rassicurante; vorrei invece sottolineare che sono proprio le piante ed i preparati fitologici deboli e più gestibili ad avere scarso (quando non nullo) effetto terapeutico.

Per manifestare efficacia, qualsiasi prodotto terapeutico deve poter esprimere un’azione forte, cioè una alta attività: utilizzare per la cura un principio attivo sulla base del convincimento che la sua azione sia blanda è una contraddizione di termini. Il punto è semmai che questa azione va perfettamente conosciuta e gestita, e che medici non ci si improvvisa.
In terapia è tecnicamente e moralmente necessario utilizzare di volta in volta il principio attivo (o la combinazione di principi attivi, naturali o di sintesi) più adatto tra quelli disponibili, col dosaggio più adatto alla persona ed alla sua situazione del momento e per il tempo più giusto.

Un’altra motivazione spesso dichiarata dai fautori del naturale è che “le piante non hanno effetti collaterali”. Questo lo sentirete dire soprattutto da chi ci lavora (produttori, venditori, terapeuti). Se accade, sorridete cortesi ed allontanatevi con calma: si tratta, quando va bene, di un sintomo di enorme approssimatezza scientifica, e quando va male di pura malafede.
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Farmaci, politica, lobby e mercati

La lobby delle case farmaceutiche, potentissima ed ovunque profondamente compromessa con la politica, ha evidentemente interesse ad acquisire il 100% del mercato mondiale del farmaco. Avete idea dei numeri di cui parliamo? Parliamo di un fatturato annuo che nel 2005 valeva 406 miliardi di dollari (fonte conacreis.it, trovate i dettagli qui) ed è in crescita vertiginosa, puntando (secondo Ims Health) ad 1,1 trilioni di dollari nel 2015. Non sorprende quindi che l’industria del farmaco cerchi di dimostrare che le piante cosiddette medicamentose non hanno effetto, e se ce l’hanno si tratta di un effetto negativo. Qualora poi l’azione benefica di una pianta sia innegabile, si cerca di spingere sui suoi effetti collaterali e sulle controindicazioni. In ogni caso, man mano che si scoprono molecole ad azione terapeutica nelle piante (o in parti di esse) queste vengono tolte dal libero mercato ed incanalate nella filiera commerciale delle farmacie. E questo ci porta al grande paradosso della Fitomedicina: solo le farmacie possono vendere sostanze dalla riconosciuta azione terapeutica. Di conseguenza, tutte le piante ed i prodotti fitologici venduti nei negozi del naturale non hanno, per legge, qualità curative di alcun genere. Infatti, ogni volta che il Ministero della Salute si accorge che una delle piante di libera vendita ha un’azione qualsivoglia, la vieta e la relega nell’ambito farmaceutico.
“È giusto”, si dirà, “il Governo deve tutelare i cittadini”. Il paradosso: secondo le leggi vigenti in molti paesi, noi possiamo comprare nei negozi naturali quello che vogliamo, a condizione che non ci faccia nulla.

A conferma di questo, non troverete mai sull’etichetta di un prodotto fitologico la descrizione di una patologia, un’indicazione terapeutica o la parola “posologia”: per il Ministero della Salute i negozi del naturale sono degli alimentari con annesso erbivendolo. E verdure devono dichiararsi (letteralmente) i prodotti fitologici per poter essere venduti.
Diverso il discorso per l’omeopatia, concepita a tavolino per sfuggire dalle maglie delle farmacologia e ad ogni restrizione, non contenendo quantità misurabili di principio attivo.

Una casa di prodotti fitologici che credesse in un suo principio attivo e volesse dargli la dignità di farmaco dovrebbe a sua volta trasformarsi in casa farmaceutica, con sperimentazioni di anni in vitro, poi su cavia, poi su volontari, poi su campioni più vasti… ben oltre il ciclo di vita e gli investimenti che una casa erboristica si può permettere di riservare ad un suo prodotto (a meno che non sia già casa farmaceutica).
“È giusto”, si dirà: “il Governo deve tutelare i cittadini”. Paradosso: secondo la legge, possiamo comprare in negozio quello che vogliamo, a condizione che non abbia alcuna azione significativa riconosciuta.

Mettiamola in un altro modo: possiamo comprare in negozio un prodotto che funziona davvero, purché nessuno lo dica troppo forte. Se il prodotto comincia a vendere bene, diventa pericoloso… e viene tolto dal libero mercato.

Il paradosso fitologico (che naturalmente paradossale non è, si tratta di una coerentissima manovra di carattere economico-politico) ci mostra anche quanto poco sia diffusa negli ambienti scientifici la cultura della fitologia farmacologica e clinica: anziché sperimentare efficacemente i principi attivi di origine vegetale, contribuendo all’evoluzione della fitologia medica, alla salute di tutti, al risparmio per i consumatori, all’uso di sostanze non sintetiche che potrebbero anche essere coltivate in loco (ad esempio nei Paesi del Terzo Mondo, spesso costretti ad “accontentarsi” di farmaci scaduti o che noi riteniamo superati), i Governi (spesso ricattati dalla lobby del farmaco) si limitano pigramente a giocare allo sceriffo.
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La verità sulle piante

Cerchiamo di fare il punto sulla realtà della terapia fitologica.

  1. Alcune piante hanno azione terapeutica, a volte molto potente;
  2. quasi sempre il principio attivo presente in una parte di una pianta non è assimilabile, perché inglobato in amidi indigeribili per l’uomo (ancorché digeribili per la capra ed altri simpatici ruminanti);
  3. la concentrazione di principio attivo in certe piante è molto bassa. La quantità efficace (cioè il dosaggio che bisogna assumerne perché si manifesti un effetto terapeutico) è quindi proporzionalmente alta;
  4. come in tutto ciò che ha un’azione potente, anche nell’uso delle piante a scopo medicinale possono esistere effetti collaterali, effetti indesiderati, effetti imprevisti e problemi di sovradosaggio;
  5. ogni anno, migliaia di persone in ogni paese industrializzato devono ricorrere a cure mediche (quando non perdono la vita) perché hanno utilizzato impropriamente piante o estratti di piante a scopo curativo;
  6. naturale non è sinonimo di migliore;
  7. quando si assume una sostanza – qualsiasi sostanza – l’effetto placebo (rafforzativo o negativo) è inevitabile;
  8. sulla vendita di prodotti terapeutici naturali si sono costruite fortune;
  9. sulla vendita di prodotti terapeutici di sintesi si sono costruite immense fortune;
  10. quasi nessun medico ha avuto una seria ed approfondita formazione nel campo della Fitomedicina (mi domando perché… e voi?);
  11. gli erboristi non sono medici;
  12. in diversi paesi, la Legge vieta la vendita di sostanze o prodotti dall’accertata azione terapeutica al di fuori delle farmacie.

Nel prossimo post: perché ricorrere a terapie fitologiche?
Intanto, il sito a mio avviso più interessante a livello mondiale sulla Fitologia Medica e sull’uso terapeutico delle piante – soprattutto per le varie risposte disseminate nelle sue pagine – è quello di Reiner Pharma.

Image courtesy est-ovest.it
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